Quando a Persano suonavano le tarozzole
Testo di Fausto Bolinesi
Il tempo delle “tarozzole” era preannunciato varie settimane prima dal rito che avveniva nelle case: la semina nei vasi di piantine che poi erano tenute al buio in modo che crescessero bianche e non verdi. I vasi venivano portati in chiesa per ornare l’altare il Giovedì Santo, quando l’altare diventava il “sepolcro” di Gesù, le campane tacevano e al loro posto suonavano le “tarozzole”. Ce n’erano tre: la prima era una tavoletta di legno su cui erano montate della maniglie di ferro che sbattevano contro la tavoletta stessa quando questa veniva agitata, le altre due erano costituite da una striscia di legno che batteva contro una ruota dentata anch’essa di legno quando veniva fatta ruotare. Il nome corretto sarebbe troccola, ma non lo sapevamo. Sostituendo la campana, ma non avendo, ovviamente, la stessa potenza sonora, le tarozzole dovevano essere portate in giro a far sentire la loro voce: al Quartiere, alle Tavernole, alla Palazzina, all’Officina, Al Casone. Lo facevano una prima volta il Venerdì Santo, per annunciare la processione. Era una processione particolare. Intanto perché si svolgeva nel primo pomeriggio e con un percorso più breve del solito, poi perché si portava la statua del Cristo morto seguita da una statua della Madonna più piccola di quella della Madonna delle Grazie che a noi sembrava grande e bellissima. La statua di Gesù morto si sviluppava in orizzontale e veniva portata non sulle spalle, ma a mano, come se fosse una barella e anche questa circostanza rendeva la processione particolare perché non dovevamo guardare le statue dal basso vero l’alto: non erano più la Madonna e Gesù al di sopra di noi, ma, come una trasposizione scenica del figlio di Dio che si era fatto uomo, una madre che, tra noi, piangeva il figlio crocefisso. Sicuramente non era così, ma ricordiamo quelle della settimana santa come giornate dal cielo grigio, ma non fredde, con l’aria di scirocco che preannunciava il tepore e i profumi della primavera persanese. La sera di sabato le tarozzole suonavano per la seconda volta e quel suono che raggiungeva tutte le case, nell’oscurità diventava ancora più suggestivo, tanto da perdere quasi la sua funzione religiosa. Che ci fosse la Messa della notte di Pasqua, infatti, lo sapevano tutti e non c’era certo bisogno che lo ricordassero quegli strumenti. Tuttavia il loro suono era atteso e rassicurante perché significava che qualcuno non si era dimenticato di chi era nella case. E, nell’immaginario di tutti, quel qualcuno non era un ragazzino che agitava una tavoletta di legno, ma…Persano. Persano che chiamava a raccolta se stesso. La funzione religiosa della notte di Pasqua cominciava al di fuori della chiesa, sotto il porticato del Palazzo reale: da un braciere il parroco Don Vittorio accendeva il cero pasquale e, seguito dai fedeli, entrava nella chiesa che restava al buio fino al momento in cui la sua voce forte, bella e dal timbro inconfondibile, esplodeva in un “gloria” che era anche il segnale perché simultaneamente tutte le luci si accendessero, cadesse il grande drappo viola che nascondeva l’altare maggiore e le campane cominciassero a suonare a distesa. La domenica di Pasqua era la classica, prevedibile giornata di festa incentrata sul pranzo, al termine del quale c’era la piccola emozione di aprire un uovo di cioccolato, mai molto grande, di qualità spesso discutibile e con la sorpresa in esso contenuta degna del contenitore. Accanto all’uovo di cioccolato era possibile trovare, ma lo sarebbe stato ancora per poco, l’uovo vero cotto su un antico e tipico dolce pasquale che prendeva appunto il nome di “pizzicocco”. Il lunedì era la giornata in cui era quasi obbligo, più che tradizione, pranzare all’aperto. Venivano diversi ospiti da fuori per quello che chiamavano picnic di pasquetta e che noi, non ancora intrisi di modernismi anglosassoni, chiamavamo “cuciniello”. Come tutti gli ultimi giorni di festa, anche quel lunedì era sempre velato di malinconia. Percepivamo negli ospiti la meraviglia e il piacere di ritrovarsi per un giorno in un ambiente così bello e affascinante. Un luogo in cui noi avevamo avuto la fortuna di vivere, molti anche di nascere, ma che comunque prima o poi avremmo dovuto lasciare. E così è stato. Solo che abbiamo poi capito che in realtà noi non abbiamo mai abbandonato Persano e, soprattutto, Persano non ha abbandonato noi che oramai, si può dire, siamo sparsi nel mondo. Lo dimostrano i ricordi che spesso rievochiamo di quei giorni e il legame, invisibile ma forte, che ancora ci tiene uniti e lo dimostra la gioia che proviamo quando ci ritroviamo, anche per caso, a distanza di anni. Per questo nelle notti di Pasqua dovunque noi siamo continuiamo a sentire il suono delle tarozzole che ancora si diffonde tra le case e nell’aria, mite e profumata, di Persano.