Le cicale di Persano
Testo di Fausto Bolinesi
Ogni anno, all’improvviso, ritornava quel canto amico a ricordarci che l’estate era arrivata. Erano le cicale che con la loro presenza sonora scandivano i giorni e le giornate della “stagione”, cioè l’estate. Ed era sempre un’estate lunga, intensa, che ci avvolgeva. Un’estate da vivere, più che da trascorrere, che aveva i suoi colori i suoi suoni e i suoi profumi, come quello della camomilla che cresceva spontaneamente lungo alcuni fabbricati e che faceva sentire la sua presenza soprattutto nelle ore più calde della giornata, o anche quello della terra bagnata dopo un temporale pomeridiano. L’estate aveva i colori e il profumo degli oleandri che vedevamo e sentivamo lungo la strada quando, prima su un camion “attrezzato” e poi su un pullman, giungevamo in prossimità di quel mare nostrum che era Paestum. E qui, dopo il profumo della pineta, ci attendevano l’odore di legno intriso di salsedine della veranda e della cabine e, in una luce abbagliante, il colore verde-azzurro del mare e una spiaggia bianca e deserta su cui, incredibile a credersi oggi, facevamo la nostra partita a pallone prima del bagno. L’estate, quando eravamo più piccoli, erano le nostre mamme in piedi sulla riva, con un asciugamani sulle spalle, a ripeterci continuamente di non allontanarci e di uscire dall’acqua. Ma noi obbedivamo solo quando le nostre labbra erano livide per il freddo e le dita delle mani bianche da sembrare lessate. L’estate era anche il verde intenso della vegetazione che proteggeva un fiume pescoso e reso ancora più verde dalle alghe che in questa stagione sembravano moltiplicarsi apposta per impigliarsi negli ami di improbabili pescatori. Ma la pesca per noi ragazzi era un inconsapevole pretesto per andare al fiume Sele, del quale, a differenza del Calore, a torto o a ragione ci fidavamo tanto da farci anche il bagno. E ancora d’estate, con il loro canto le cicale facevano da sottofondo al ronzio delle mosche e dei tafani che nella controra tormentavano i cavalli riuniti in cerca di frescura all’ombra degli alberi nei grandi parchi di Felitto, della Menanova o degli Stalloni. La visita che facevamo a questi capannoni era anche l’occasione per assaporare l’estate raccogliendo le more o anche le trigne lungo la strada. Sempre il canto delle cicale accompagnava la brezza di mare pomeridiana che faceva dondolare il bucato steso all’ombra delle acacie ed era naturale che, una volta asciutto, questo profumasse semplicemente di fresco e di aria pulita. Era anche il periodo in cui si cucinava usando il sugo di pomodoro che ogni famiglia aveva preparato per tutto l’anno. Quello delle “bottiglie” era, più che una tradizione, un rito a cui partecipavano tutti i membri della famiglia e non solo: ci si aiutava tra le famiglie stesse. Ci si alzava quand’era ancora buio. Per estrarne il succo, i pomodori venivano passati con una macchina nei primi tempi azionata a mano, poi elettricamente. I più piccoli erano addetti a preparare le bottiglie “a pacche”, vale a dire infilare nelle bottiglie i pomodori tagliati a spicchi. I momenti più delicati erano comunque due: la chiusura delle bottiglie con un tappo di sughero che veniva poi legato, sostituito negli anni successivi dal tappo metallico a corona, e il posizionamento delle bottiglie in un calderone in cui venivano messe a bollire per ore. Se andava bene, alla fine non si trovava neanche una bottiglia rotta. Nelle sere d’estate nelle case persanesi si sentiva l’odore delle cipolle e dei cetrioli che arricchivano, spesso con il sedano e i peperoni, l’immancabile insalata fresca di pomodori. Tutti questi prodotti erano coltivati, fino ai primi anni sessanta, negli orti che ogni famiglia curava e che erano allineati in più file nel terreno di fronte al campo sportivo. Era l’epoca sana e felice in cui i frutti di stagione erano effettivamente stagionali e non annuali, come avviene oggi. Il dopo cena delle serate estive si godeva passeggiando lungo il viale dell’officina a del Casone o anche stando seduti davanti casa magari su una panca di legno come alla Palazzina o davanti alla Barberia. Si chiacchierava, si conversava, con le porte delle case sempre aperte: l’estate in qualche modo dilatava gli spazi già grandi in cui eravamo abituati a vivere. Sapevamo che, cosi come era cominciato, un giorno quasi senza che ce ne accorgessimo, sarebbe cessato il canto delle cicale e l’estate, anzi la stagione, sarebbe finita. Ma non dimenticata. Come le precedenti, l’avevamo assorbita e quel canto di cicale, quelle sensazioni di profumi, colori, suoni, le avremmo portate con noi. E ancora le portiamo.